Benvenuto nella truppa


Una famiglia con molti fiocchi rosa e azzurri. Primo marzo 1838, arriva un altro maschietto. Lo portano a battezzare in giornata nella cattedrale di San Rufino in Assisi, stesso battistero di San Francesco, e gli mettono il nome del famoso concittadino, con l’augurio che porti bene. Sante Possenti di Terni è il papà, è governatore pontificio di Assisi. La mamma, Agnese Frisciotti di Civitanova Marche, casalinga. Abitano nel palazzo comunale. Francesco è l’undicesimo figlio, ma due sono già tornati al Signore, e altri due nasceranno in seguito. Il neonato prende il suo posto nella fila e incomincia a crescere senza tante cerimonie. Checchino, così amavano chiamarlo in casa, deve imparare subito che la vita non è solo giocare. Il papà va in ufficio, la mamma fa la spesa e dirigie la casa, i fratelli più grandi vanno a scuola e quando fanno i compiti occorre lasciarli in pace. Poi c’è la preghiera che ha un posto importante, specialmente alla sera nessuno può tagliare la corda quando mamma o papà fanno richiami o danno istruzioni, nessuno deve interrompere e tutti devono ubbidire e pregare insieme. Qui la vita si prende sul serio. Francesco ci sta senza tante storie perché anche quello fa parte del giuoco della vita.


 Le intemperie consolidano le radici


Nei primi quattro anni succedono in casa tanti cambiamenti che Checchino non riesce a raccapezzarsi. Nel 1839 arriva il fratellino Vincenzo, nel 1840 il papà e designato governatore a Montalto Marche e vi si reca senza spostare la famiglia da Assisi ma portandosi via i figli Michele di sei anni e Teresa di dieci; perciò vive fuori e si rivede solo nelle feste. Per Checchino questo periodo è pieno di mamma Agnese. Ella colma il bisogno materno di ciascuno dei figli, anzi assume anche la fermezza del ruolo paterno che per il momento è attenuato. Checchino si sente accolto e protetto. Ella gli dà senso di sicurezza e di festa; ha tante cose da fare ma sembra che sia tutta per lui. Resta incantato a vederla arrivare dappertutto senza togliere nulla a nessuno, a sentirla parlare o cantare, soprattutto a scoprirla immobile davanti a una statuetta della Madonna Addolorata. Egli non capisce che cosa stia a fare, ma gli dicono che in quei momenti non bisogna disturbarla perché sta pregando. Nel 1841 Sante è promosso governatore a Poggio Mirteto nel Lazio e si sposta con tutta la famiglia anche se solo per poco tempo. Dopo si ritorna a Spoleto ma qui li eventi precipitano. Muore l’ultima arrivata di casa Possenti, la piccola Rosa di soli sei mesi. A fine gennaio 1842 si spegne all’improvviso anche la sorellina Adele di nove anni, per emorragia cerebrale. Subito dopo la mamma si ammala gravemente e tutti in casa sono presi dalla preoccupazione dell’irreparabile. Agnese si rende conto che sta per morire e vuole abbracciare e baciare i figli dando l’arrivederci in paradiso. Stringe con particolare forza Checchino, raccomando la bontà e le preghiere. Muore nella dignità maestosa con cui è vissuta, il 9 febbraio 1842 a meno di 42 anni. Checchino si accorge che per un po’ nessuno ha più voglia di sorridere né di giocare. Il papà spiega che la mamma è partita perché chiamata dalla “adorabile volontà di Dio” e tutti si impegnano per colmare il vuoto al meglio possibile. Non ha ancora quattro anni.


Avanti si cresce


Nel 1844 Checchino inizia le elementari dai Fratelli delle Scuole Cristiane, sotto la guida della governante Pacifica Cucchi e della sorella maggiore Maria Luisa che hanno fatto di tutto per attenuare le conseguenze della morte della mamma. Nel 1846 Checcino riceve la Cresima nella Chiesa di San Gregorio. Nel 1848 scopre di nuovo sul volto di papà uno strazio simile a quello di sei anni prima: è giunta notizia che a Chioggia è morto il figlio Paolo, che era andato a combattere per l’unità d’Italia. Corrono anni turbolenti nella nazione.La figura di papà lo suggestiona. Solo di rado gli diventa pesante. Lo sente forte ma anche dolce, esigente ma comprensivo. Lo segue la sera mentre presiede il rosario e dà indicazioni su fatti correnti. Sente che tiene in mano con sicurezza le redini della famiglia. Nel 1850 i Gesuiti rientrano a Spoleto e riaprono il loro “Collegio Spolentino”, vanto culturale della città e dell’Umbria. Checchino vi si iscrive per il corso di umanità, più o meno ginnasio e liceo classico. Vi riceve la prima comunione il 21 giugno 1851 festa di San Luigi Gonzaga. Vi trascorre sei anni intensi e decisivi per la costruzione della sua personalità. L’impronta culturale e religiosa di questo periodo lo contrassegna per tutta la vita. Lo studio gli piace e riesce bene. Dà soddisfazione ai professori, suscita emulazione tra i compagni e si sente realizzato nell’intimo. I risultati arrivano puntuali a compensare gli sforzi: primi o secondi premi quasi ogni anno, menzione in molte materie, medaglia d’oro in filosofia. Nel 1853 alcuni eventi familiari lo fanno riflettere più del solito. A febbraio giunge da Roma la notizia della morte del fratello Lorenzo. A settembre si sposa la sorella Teresa e il fratello Luigi è padre domenicano.Checchino ha quindici anni. La voglia di vivere travolge le increspature problematiche della situazione. La sua vita è piena di belle figure a scuola, di successi nella società, di primi posti nelle combriccole, di ottime relazioni di amicizia. Organizza partite di caccia che è lo sport preferito dei maschi del tempo, partecipa a passeggiate e scampagnate, va volentieri a teatro,gioca a carte, va a ballare, anima conversazioni brillanti e galanti, è sempre sul palco nelle recite scolastiche e sempre strappa applausi. Niente male,anche se a volte i divertimenti gli intorpidiscono la sensibilità spirituale e gli imbrogliano i pensieri quando va a pregare.


Cosa farà da grande?


Cosa farà da grande? Se lo domandano tutti. C’è chi costruisce sogni su di Lui, a partire da suo padre e da qualcuna delle ragazze che frequentano la famiglia. Lui della vita è innamoratissimo, si vede da come ci si butta, ma sul futuro è ancora indeciso. C’è un vecchio progetto che lo attira almeno quanto le belle figure e le amicizie romantiche: quello di legarsi a Dio e di servire il prossimo nella vita di convento. Checchino rimanda spesso la scelta senza troppa fatica, tanto per ora ci sono molte cose da fare per prepararsi alla vita. C’è da finire il liceo, c’è da aiutare suo padre, al quale fa da segretario. Sante stesso lo incoraggia a prender tempo ogni volta che gli accenna a quell’idea del convento. Intanto è un ragazzo non solo devoto e praticamente ma anche altruista e generoso. Trova sempre qualcosa da dare ai poveri, aiuta i compagni più fiacchi nelle materie di scuola, è il primo a scattare quando in famiglia qualcuno ha bisogno di aiuto. L’empatia lo rende capace di sintonizzarsi con gli altri, di provare le stesse emozioni, di capire i loro desideri e necessità. Nel 1855 all’improvviso muore l’amata sorella Maria Luisa, mentre lui si trova alla processione del Corpus Domini. Non è possibile! A 26 anni muore una ragazza, per lui un po’ madre, un po’ sorella e sempre amica negli ondeggiamenti dell’anima. Segue l’anno più drammatico della vita di Checchino. E’ deciso di lasciare tutto e di entrare in convento, ma il padre gli ha imposto un anno di tregua per vederci chiaro. Si impegna nello studio e come al solito partecipa alla vita sociale ma senza riuscire a starci dentro spensierato come prima. Festa grande a Spoleto il 22 agosto, ottava dell’Assunta. Si celebra la Madonna del Duomo, antica immagine orientale, che la liberato la città da molti pericoli. Checchino è tra la folla, un po’ svagato e con l’imbarazzo interiore di non sapere come fare per mettere la vita sulla traiettoria giusta. Il quadro della Madonna sfila in processione portato dal Vescovo. Quando passa davanti a lui, avverte che gli occhi dell’immagine diventano vivi e lo fissano dritti nell’animo. E con gli occhi la voce :” Francesco, che cosa stai a fare? Non senti che questa vita non è fatta per te? Entra in convento”. E’ fatta. Né la morte né la paura l’avevano mai piegato del tutto. Ci voleva un invito d’amore sconfinato. Della Madonna Checchino è sempre stato devoto. L’ha imparato da mamma Agnese, l’ha confermato con l’esempio di papà Sante, c’è cresciuto con l’educazione religiosa della congregazione connessa al collegio spolentino. Nessuno lo ferma più. Il fatto succede il 22 agosto. Il 9 settembre è già in noviziato dai Passionisti a Morrovalle nelle Marche.


Al posto giusto


Da qui in poi la sua vita è ad alta quota. Resta Morrovalle fino a giugno 1858, dodici mesi di noviziato e nove di parcheggio per perfezionare il latino e la filosofia come si esige per diventare sacerdote. Nel vestire l’abito passionista cambia anche il nome: non si chiama più Francesco Possenti ma Gabriele dell’Addolorata, perché sia chiaro che il passato non esiste più. Il 22 settembre 1857 finisce il noviziato. Si lega a Dio coi voti di incentrare la vita sulla Passione di Cristo e di essere povero, casto e ubbidiente. Ci si è messo con una grinta da fare impressione anche ai più anziani. Nella nuova vita non ha avuto bisogno di scaldare i muscoli né di allenamento, ma è subito partito al massimo dell’accelerazione. Il 4 luglio 1859 parte per l’Abbruzzo, ad Isola del Gransasso in provincia di Teramo. Nella nuova sede Gabriele prosegue gli studi, riceve i ministeri e si prepara al sacerdozio. Gabriele è ormai famoso perché sa parlare della Madonna che è un incanto. Se gli dai spago su questo tema, parte come la stoppa raggiunta da una scintilla. Non smetterebbe mai. Non si capisce dove trovi tutti quei pensieri. Della Madonna è talmente innamorato che non si è visto mai uno così. Un impasto d’amore o un incendio d’amore, dice il suo direttore spirituale. Una pienezza che non riesce a contenere. Ella è una presenza permanente nel suo cuore. E’ un innamoramento profondo che non lascia nessun palpito vagante. Per lei è capace di fare tutto, di non negare nulla, di vincere ogni difficoltà, di abbandonarsi nella completa fiducia. Quando si dice la Madonna, per lui è soprattutto l’Addolorata, come ha imparato fin da piccolo. Quando medita i suoi dolori si sente già in paradiso perché scopre il massimo dell’amore. Ella gli rivela il mistero del Crocifisso che è il cuore della spiritualità passionista. Con gli occhi di lei lo ama e lo contempla. Alla sua scuola trasforma se stesso in un piccolo crocifisso. Il pezzo forte della sua vita, la cosa che più gli piace da quando è entrato in convento è la preghiera. Si immerge talmente nel cuore del Crocifisso e dell’Addolorata che gli sembra di identificarsi con loro. Quando sta a Messa sembra una statua e quando va alla Comunione un angelo. La gente lo chiama il fraticello santo. Si carica di devozioni da finire a notte alla luce della candela. Non contento di tutto quello che fa scoppia a piangere quando pensa che non riesce ad essere santo come Dio gli fa sentire dentro. Chiama il suo direttore in camera, gli cade in ginocchio e implora :” Mi dica se nel mio cuore c’è qualcosa che non piace a Dio, perché la voglio strappare”. Ci riesce così bene che il direttore assicura di non aver mai visto in lui un peccato veniale avvertito.


Tempo di consumazione


Nel 1861 ritornano i dolori al petto e le difficoltà di respiro. Sembra il suo debole di sempre e invece è la tisi. Come dire oggi, un cancro. Sarebbe pronto per il sacerdozio, ma difficoltà politiche impediscono nuove ordinazioni. Gabriele si rende conto che non c’è niente da fare. Il viaggio è già finito. E’ alla frontiera dell’aldilà. Ma non si sconvolge. E’ proprio quello che aveva chiesto qualche anno prima, durante le prime immersioni nell’amore che appaga ogni attesa. Ora in quell’amore si è talmente tuffato che vivere di qua o vivere di là fa poca differenza. Sarebbe bello fare un altro passo per entrare nel sogno del sacerdozio, ma che conta? Quel che conta è solo la volontà di Dio. “Così vuole Dio, così voglio anch’io”, scrive. La mattina del 27 febbraio 1862, mentre i bagliori dell’aurora sfiorano la facciata del Gransasso, Gabriele è a letto nella sua cameretta, circondato dalla comunità chiamata dalla campana col segno dei morenti. Saluta tutti, promettere di ricordare in paradiso, chiede perdono e preghiere. Poi sentendosi mancare il respiro e spegnere il cuore, si abbandona all’amore che ha consumata questi ultimi sei anni della sua vita, invocando :” Maria, mamma mia, fa presto”, e sorride verso la parete dove la vede arrivare per dargli il benvenuto nella nuova dimora. Persino morendo esprime l’incontenibile voglia di vivere. Non respira più. Resta solo il sorriso. Questa è la prima parte della sua storia. La seconda comincia a partire da qui, è ancora in pieno svolgimento sotto gli occhi di tutti e ogni devoto la può raccontare. Esplode trent’anni dopo, nel 1892, quando all’esumazione del suo corpo dalla tomba accorrono migliaia di abruzzesi e lui si fa sentire vivo rispondendo con una pioggia di miracoli. Continua nel 1908 con la beatificazione e nel 1920 con la canonizzazione. San Gabriele esprime i valori che anche noi oggi andiamo cercando: voglia di vivere, di riuscire, di realizzarci e di essere felici. Capacità di ubbidire ma anche ansia di autonomia e rifiuto di farsi manipolare. Apprezzamento della vita e di tutte le cose belle che offre.